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L'ALBERO, IL SINDACO E LA MEDIATECA
(L'ARBRE, LE MAIRE ET LA MEDIATHEQUE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 5 ottobre 1993
 
di Eric Rohmer, con Pascal Greggory, Arielle Dombasle, Fabrice Luchini, Clémentine Amouroux (Francia, 1993)
Apparso pochi giorni prima delle ultime elezioni francesi, il film di Rohmer è stato frettolosamente etichettato come "politico". Per la sua storia: che rimane ancora - all'alba del duemila - l'elemento di analisi spiccio usato dai mezzi d'informazione più pigri per classificare un film... Ora, se L'ARBRE è un film politico lo è certamente per ragioni produttive: girato per meno di trecentomila franchi (il decimo di un film svizzero medio, il centesimo di uno americano) utilizzando materiale acquistato d'occasione dalla TV, una decina di collaboratori in tutto. Ed un'uscita senza sostegno pubblicitario: semplicemente, assicurandosi una sala parigina per una proiezione (rivelatasi incredibilmente profittevole) da protrarsi per molte settimane.

Ma, quello di un volenteroso sindaco socialista che vuol costruire un centro sportivo-culturale nel prato comunale di un villaggio della Vandea e che viene a scontrarsi con il maestro di scuola vicino agli ecologisti, non è pur sempre un tema politico? Certo, poiché tutto è (anche) politico. Ma le "storie " di Eric Rohmer non sono mai abitate da personaggi, bensì da esempi di comportamento. Soggetti di studio: degli entusiasmi, delle debolezze dei quali il regista fa la ragione del proprio sguardo cinematografico. Per iscriverli in un piccolo-grande gioco: che, a sua volta, serve a sottolinearne maggiormente la simpatia, la vanità, soprattutto la relatività. È in questo senso che il cinema di questo orchestratore di melodie minimaliste non è certamente quello del cesellatore astratto ed un poco fatuo: ma l'opera distante, poetica ed al tempo stesso terribilmente concreta, reale, di un artista sempre attento agli umori del proprio tempo. Le dissertazioni di Molière e Marivaux, filmate con la precisione di Hitchcock: anche se lo stile di Rohmer sembra farsi più scorrevole, meno calcolato (soprattutto in queste sue opere povere, sottolineatamemte amatoriali come già lo era stato LE RAYON VERT) l'equazione che regge il suo cinema sembra sempre valida. Dei personaggi mai neri, ma nemmeno bianchi: mai totalmente simpatici, spesso futili per non dire sciocchi, ma osservati comunque con comprensione. Delle pedine di un gioco quasi astratto, talvolta addirittura arbitrario, nelle quali lo spettatori stenta ad identificarsi: e che permettono quindi all'autore quell'osservazione, quella critica amabile-feroce di una società che si è fatta delle clamorose illusioni in fatto di modernismo.

Una volta ancora, i personaggi di L'ARBRE sono fatti a questo modo: sono degli archetipi, ma anche il contrario di ciò che dovrebbero rappresentare. Gli architetti? "Sono contrario al ripristino della pena di morte; tolto che per gli architetti" - fa dire Rohmer ad uno dei suoi personaggi. Pronto però ad aggiungere: "L'architetto ha una responsabilità immensa; ma in questo risiede la sua forza e la sua grandezza. Per costruire, deve sempre distruggere: un edificio esistente, oppure un paesaggio. Interviene sul mondo, lo trasforma". Così il sindaco dai berrettini di tweed impeccabili, ma che in definitiva conquista per il proprio fervore; l'insegnante che si commuove per il salice, ma che sappiamo bacato e destinato a crollare comunque entro un paio d'anni; la giornalista che cerca onestamente la verità intervistando i contadini, ma alla quale modificano il testo mentre è di servizio in...Somalia; la romanziera parigina che si perde nell'intrigata diatriba se è la città che deve andare verso la campagna, o viceversa.

Non per nulla sarà una ragazzina a concludere che ciò che bisogna fare è "creare spazi verdi in campagna". Eric Rohmer, quanto a lui, si "limita" prodigiosamente a fare della storiella della porta accanto, una favola di due ore su grande schermo. Ed a rivoltare, sornione, le carte in tavola.


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